Friday, January 30, 2015

Il mattino ha l'oro in bocca

Questo racconto l'ho scritto ormai da un po'. Non mi fa impazzire l'indignazione politica, ed a rileggerlo lo trovo un po' ingenuo. Però ha delle immagini che mi piacciono molto, come il paragone dei banchi del parlamento visti dall'alto ai labirinti per ratti degli esperimenti psicologici.
Scriverlo mi ha dato tanta soddisfazione, non avevo mai provato a comporre testi violenti.


Anche oggi Franco, da bravo cittadino, si è svegliato alle 7:00. Senza far troppo rumore per evitare di svegliare la moglie, ha fatto la doccia e si è vestito.
Presa la sua 24 ore, inseguì la scia di lievito sfornato fino al Bar all'angolo, quello che fa i cornetti più buoni del quartiere. Sullo schermo appeso in alto sopra il bancone, un mezzobusto incravattato spiegava i giusti motivi che alcuni politici avanzavano per aver intascato dei finanziamenti pubblici. La notizia successiva riguardava la storia di un deputato razzista e della sua arroganza che era giustificata da motivi politici, non assolutamente per odio xenofobo come parte dell’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere. Poi ancora un sindaco corrotto dava il consenso per dei lavori in appalto che di punto in bianco si interruppero dopo le elezioni vinte ed infine un'indagine di magistrati probabilmente comunisti che cercava di chiarire i traffici loschi tra alcuni noti esponenti della malavita e vari colletti bianchi della penisola.
Franco continuava a masticare il suo cornetto serrando le mandibole con sempre più forza, diventando sempre più nervoso. Nella sua mente le parole dello speaker sorridente rimbalzavano come la pallina di Pong, ora colpivano una tempia, ora quella opposta.
Era stanco, stanco di questa impunità, stanco di questa arroganza, stanco di questo buonismo televisivo che cercava di far ingoiare a tutti dei grandi bocconi sempre più amari, sempre più indigesti.
Qualcosa successe, Franco si girò e tornò a casa.
La moglie nel dormiveglia sussurrò "Franco, sei in ritardo, svegliati".
La guardò, la accarezzò, le diede un bacio.
Nello sgabuzzino la doppietta era ancora appesa. Lo rimandava ai tempi della gioventù, quando andava con gli amici al bosco, sveglia alle 6, a cercare qualche beccaccia o pernice. Raramente riuscivano a colpirne una, ma la sosta alla taverna sulla strada era d'obbligo, e spesso tutto si risolveva in un'ubriacata tra amici e in canti goliardici.
Nella sporta c'erano due scatole di munizioni, pallini a rosa, 120 per scatola.
Franco svuotò la 24 ore dai documenti, smontò le canne e dispose i pezzi al suo interno, svuotò le scatole nella valigetta, indossò il suo impermeabile e si incamminò verso l’uscio.
La moglie in dormiveglia ripeté: “Amore alzati sei in ritardo”.
Franco sorrise: era sempre stata talmente ansiosa da arrivare a comandarlo durante il sonno. Le carezzò di nuovo la nuca e a bassa voce le disse “Amore non preoccuparti sono pronto.”.
Lei non rispose, si girò sull’altro fiancò e continuò il sonno.
Il cammino verso la Camera dei Deputati non fu ansioso o lungo, ma naturale. Franco si fece la strada a piedi, canticchiando. Nel frattempo cercava di capire quanti poteva prenderne al massimo prima di essere a sua volta colpito dalle guardie. Pensava che 240 munizioni erano pochine per 630 bersagli, e forse avrebbe dovuto attendere l’apertura di un’armeria.
Davanti all’ingresso il carabiniere di guardia lo fermò.
“Signor franco, si fatica pure oggi?” Franco era sistemista, lavorava spesso alla Camera, lo chiamavano per sistemare problemi informatici di quelle vetuste macchine con sistemi operativi obsoleti. Giustamente nel posto dove si manovrava una nazione conservatrice in costante ritardo sulle novità politiche, i sistemi informatici non possono che rispecchiare la situazione.
“Devo controllare il cervellone, pare che abbia problemi e mandi in tilt il pannello luminoso delle votazioni.”
“Perfetto, attenda un attimo che devo chiamare il direttore della sala computer.”
Franco sapeva bene che il direttore non si sarebbe presentato prima delle 9.30, a quell’ora nessuno lavorava alla Camera.
“Guardi al momento non mi risponde nessuno. Mi lasci il documento che le faccio il pass, non la faccio accompagnare che siamo a corto di personale, la strada la conosce tanto no?
Giusto un secondo la perquisizione d’obbligo, allarghi le braccia... Ok è pulito. Dovrei farle passare la valigetta nel metal detector, ma abbiamo dei problemi con la macchina da un po’ di giorni, ma lei è sempre qui, diciamo che l’ho controllata, se qualcuno le trova un mitra nella valigetta, non dica che l'ho fatta passare io.”
"Ah ah, ma si figuri, queste cose non vanno dette neanche per scherzo!" rispose Franco.
Da una parte questa nazione piena di disservizi e malfunzionamenti stava tornandogli utile: non aveva pensato in minima parte a come superare il primo controllo.
Camminò verso la sala del “cervellone”, un sistema antico capace di gestire le poche automazioni elettroniche della sala: serrature automatiche, luci e le lampadine verdi e rosse del tabellone luminoso per le votazioni elettroniche. Dalla sala, posta dietro il tabellone, una vetrata gli consentiva di osservare tutta la Camera. Franco nascose la valigetta nell’armadietto ed iniziò ad armeggiare col computer. Doveva aspettare almeno un’oretta prima di iniziare a vedere qualcuno, ed almeno un paio se voleva la camera dei deputati piena.
Il tempo passò, tra una partita a campo minato ed una a solitario. Il direttore si affacciò un paio di volte, constatò che era tutto regolare, e tornò a dormire nel suo ufficio.
Dal finestrone si vedeva tutto, la sala era semivuota, ma era una consuetudine abbastanza frequente, quindi Franco si considerò soddisfatto e si preparò all'azione. Aprì la valigetta e ricostruì l’arma, la caricò, svuotò le scatole di proiettili nelle tasche dell’impermeabile e lo indossò.
All’uscita dalla sala computer incrociò un suo collega: “Franco che ci fai qui?”
“Vattene ora finché sei in tempo.” gli rispose.
Il collega lo guardò negli occhi confuso, non rispose, e continuò a camminare.
Il corridoio era pieno arazzi pregiati e di lampadari barocchi, i marmi policromi brillavano e riflettevano quasi come uno specchio. Franco si diresse verso la Camera. Nella stanza antistante una guardia armata gli chiese cosa volesse fare.
Franco gli mostrò il cartellino e disse “Devo provare qualche pulsantiera per vedere se il tabellone elettronico funziona ancora”.
La guardia, stanca e disinteressata lo lasciò entrare, non si chiese nemmeno il perché di un impermeabile all'interno di un luogo chiuso.
La Camera era un’enorme sala sfarzosa e amplia, piena di esseri umani che si adoperavano a sembrare impegnati. Chi dormiva, chi leggeva giornali, chi giocava a briscola sull’iPad.
La luce dall’imponente lampadario di cristallo teneva la sala illuminata a giorno, i climatizzatori contribuivano a mantenere il clima gradevole e tutti quanti sembravano allegri ed incuranti.
Nessuno si accorse di quell’ometto che si chiudeva la porta dietro le spalle.
Nessuno si accorse delle serrature automatiche che si attivavano: il cervellone era stato programmato per chiudere a chiave tutte le porte dopo 5 minuti, e tanto era bastato a Franco per raggiungere la sala. Udì il click, e prese un respiro profondo.
Improvvisamente il tabellone elettronico si trasformò riga per riga.
Piano piano le luci verdi su sfondo rosso composero la frase “IL CONTO”.
I deputati guardarono in alto incuriositi ed iniziarono a ridere di gusto, per poi tornare a non fare nulla ai loro banchi.
Franco con molta calma scese dalla cavea verso il centro della sala, sotto gli occhi dei politici incuriositi.
Arrivato al centro, ormai tutt’altro che ignorato, guardò verso l’alto, e sorrise. Avrebbe dovuto dire qualche frase ad effetto queste cose funzionano sempre nei film americani, ma era un uomo semplice, non voleva apparire ingenuo ai posteri dicendo una frase scontata tipo “questo è quello che meritate!”, lui lo faceva per sé stesso, non per qualche tipo di vendetta sociale. Si era semplicemente annoiato di essere preso per il culo costantemente a reti unificate da altri esseri umani identici a lui che parlavano di “bene del paese” mentre innestavano il germe dell’interesse economico sotto ogni aspetto della vita.
Sfoderò la doppietta e sparò i due colpi. Uno a destra ed uno a sinistra. 3 deputati caddero al suolo, un boato si levò dalla sala ed il panico iniziò a serpeggiare. Deputati di destra e di sinistra si scavalcavano l’un l’altro per cercare la via d’uscita. Le donne venivano lasciate indietro, spinte e strattonate. Alcune ruzzolarono per le scale spezzando i tacchi delle loro costosissime scarpe griffate.
I più vigliacchi le usavano come scudo, il presidente della camera si nascose sotto la cattedra.
Franco con molta calma caricò altri due colpi e si diresse verso la porta sigillata elettronicamente.
Là erano ammassati come topi in una nave che affonda, rannicchiati con la testa fra le mani. Alcuni avevano i pantaloni bagnati, altri piagnucolavano, i più coraggiosi proponevano immunità e soldi in caso fossero lasciati vivi. Franco mirò nel mucchio di carne umana e sparò i due colpi da una distanza ottimale, la rosa li falciò tutti.
Una seconda ondata di urla di terrore rimbombò per la camera. I deputati feriti strisciavano o si coprivano sotto i cadaveri di quelli morti.
Dalla porta si udiva il rumore dei colpi dei poliziotti che tentavano di sfondare, ma Franco non se ne curò. Caricò ancora ed iniziò a camminare tranquillamente. Come quando andava alla ricerca di lepri, “ma le lepri non sono così stupide da correre in linea retta” pensò.
Ne colpì due nascosti sotto le poltrone, poi ancora tre che correvano in fila indiana.
Scese verso le donne che erano state lasciate a terra durante la prima fuga, caricando il fucile.
Alcune si erano fatte male cadendo dalle scale, strattonate da uomini di sani principi liberali.
Franco si avvicinò le guardò sorridendo. Morirono con molta più dignità dei colleghi uomini.
Altre due cariche, e stavolta si decise a sparare sulla cattedra dove supponeva fosse nascosto il Presidente.
Un urlo si udì, la voce era inconfondibile. Per sicurezza sparò un secondo colpo, ma stavolta nessuna voce arrivò dal legno.
La porta cedette. Da dietro si udivano le voci dei carabinieri che cercavano di farla aprire, ma i cadaveri ammassati lo impedivano.
“Ho ancora qualche minuto” pensò. Ricaricò l’arma e scavalcò fino alla poltrona del presidente. Da lì era possibile scrutare tutta la situazione. A terra il corpo ben vestito del presidente non si muoveva. E per una volta il viso esprimeva dei sentimenti sinceri.
Dall’alto pensò di stare osservando uno di quei labirinti per ratti. Tanti ratti in giacca e cravatta strisciavano tra i banchi, alcuni ratti più corpulenti tentavano di nascondersi dietro pannelli di legno, sudati, impauriti, altri magri si muovevano continuamente alla ricerca di una via di uscita. “Per una volta siete voi a provare tensione, per una volta sono io a mantenere la calma mentre tutti voi state nella merda, per una volta tocca a voi sperare di farcela ed arrivare a fine giornata”. Franco mirò verso un punto di aggregazione, un’altra porta bloccata. Un deputato si levò urlando “Stronzi, così ci farete ammazzare tutti!”
“È troppo tardi per diventare previdenti.” sussurrò fra sé e sé. Il grilletto indietreggiò, il cane scattò. Due volte.
Prese una manciata di proiettili, ora sembravano decisamente troppi per essere utilizzati tutti, e li lanciò come riso ad un matrimonio. I deputati che ne vennero colpiti frignarono qualche lamento, si rotolarono a terra, credendo di essere stati feriti, toccandosi le parti colpite impauriti.
Finalmente con una spinta decisa, gli agenti entrarono in sala, le porte spazzarono i cadaveri verso l’esterno, gli agenti in giubbotto antiproiettile si disposero a semicerchio e puntarono le armi verso Franco.
“Fermo!” gridò uno di loro.
“Vediamo quanto sono pronti i loro riflessi” pensò.
Prese la doppietta scarica e la puntò contro di loro.
La crivella di colpi arrivò immediata ma fù indolore. Tutto divenne buio.
Una voce familiare sussurrò “Franco, è ora cazzo!”
Un display rosso segnava le 7:35.
Due occhi castani lo fissavano innervositi: “Questa è l’ultima volta che vai a caccia la domenica. Torni sempre tardi e ti ubriachi come un alcolista! Non hai più vent’anni! Corri o ti licenziano, oggi devi andare alla Camera! E’ mezz’ora che ti chiamo!”
Franco aprì gli occhi guardo sua moglie e le disse “Sai cara, ho fatto un sogno molto bello.”
“Ah, davvero? E io c’ero?”
“Si, amore, c’eri anche te.”

Franco si alzò, indossò l'abito e si diresse verso lo studio. La doppietta era coricata sulla scrivania, ancora sporca dalla battuta della sera precedente. Franco la guardò sorridente, ed iniziò a svuotare la ventiquattr'ore.